mercoledì 6 giugno 2012

DEATHQUAKE: CHAPTER 2.2 UNDEAD VISIONS


Correvamo, correvamo con la macchina che avevo appena rubato, magari ad un amico o ad un mio conoscente, ma in quel momento non mi importava. L'unica cosa che volevo era portare entrambi il più lontano possibile da quel posto infernale, facendomi largo quanto più possibile in mezzo alla folla di persone e moribondi ambulanti. Il figlio maggiore di Jack, Nicolas, non smetteva di gridare “Papà! Papà!” piangendo a dirotto, singhiozzando di quando in quando; mentre io frastornato dai pensieri e dalle grida tentavo di restare lucido quanto possibile per salvare entrambi. I secondi passavano lenti in modo irreale. Quant'era passato dall'attacco di quelle creature? Un'ora? Cinque minuti? Non ne avevo idea. Avrei mai più rivisto Jack e sua figlia? Avrei mai più rivisto il luogo in cui ho vissuto per così tanto tempo, che mi è sempre sembrato sicuro e che ora sembrava una trappola di morte? Domande che affollavano la mia mente mentre un comando campeggiava su ogni altro, monopolizzando la maggior parte della mia attenzione “SCHIACCIA QUEL CAZZO DI ACCELERATORE!”. Arrivammo più rapidamente del previsto alle porte della città. Diversi di quei cadaveri ambulanti ci intralciavano la strada. Esseri vuoti, privi di anima. Finora credevo di averli visti solamente nei film horror del venerdì sera, ma ora erano li, davanti ai miei occhi. Non era un film e non stavo nemmeno sognando, anche se avrei voluto che fosse uno di quei terribili incubi post abbuffata domenicale. Erano li e si guardavano attorno, cercando, annusando, pronti a saltare addosso a qualunque essere umano in vita gli capitasse a tiro per divorarne le membra. Tre di loro erano chini su qualcosa, la luce dei fari della macchina li illuminava appena, poiché stavano sul bordo della strada, in posizione leggermente laterale. Uno si alzò verso di noi. Ci guardava. Lo stesso sguardo di Amber. Freddo. Morto. La bocca insanguinata e semi-aperta lasciava intravedere parte del suo sanguinoso banchetto a cui stavano partecipando gli altri due, un brandello di carne grondante. Cinque di quei mostri erano in mezzo alla strada come a volerci fermare. Tra di loro uno era una donna. Una figura esile si muoveva lentamente nell'oscurità. Silenziosa e tetra. Leggera come uno spettro si muoveva lentamente ma allo stesso tempo con fare sinuoso, nel buio di una notte senza fine. Si girò verso di noi. Ci guardava. Era oltre il raggio d'azione dei fari, ma io sapevo che ci stava fissando. Sentivo occhi di un altro mondo posati su di noi. Palpebre e pupille di chi vedeva in noi fonte di vita dalla morte. Iniziò a camminare nella nostra direzione, gli altri quattro erano come rapiti dall'odore acre di sangue che iniziava a riempire l'aria.
Appena i fari colpirono la figura di quell'essere immondo scoprii di chi si trattava. Mi sembrò come di cadere in una voragine senza fondo. Il dolore si impadronì di colpo del mio cuore quando i miei occhi incrociarono quelli di mia moglie; quegli stessi occhi che mi osservavano dal sacco nero in cui infilarono il suo cadavere. Il sorriso una volta radioso era ora contratto in un'orrida smorfia. La bocca sanguinante si allargò lentamente, quasi mi avesse riconosciuto. Sembrava volesse dire qualcosa, ma ormai era troppo tardi. Ero come impietrito, non sapevo cosa fare. Iniziò ad avanzare e con lei anche gli altri dietro presero l'iniziativa. Non vi era altra scelta. Mi girai verso Nicolas. “Chiudi gli occhi e tappati le orecchie, qualunque cosa accada: non aprire gli occhi!” dissi in tono incredibilmente calmo e tranquillo, nonostante la situazione “Intesi?” il bambino non mi rispose a voce, troppo terrorizzato da tutto quello che stava accadendo, si limità ad obbedire al mio comando, chiudendo immediatamente gli occhi e tappandosi in fretta le orecchie, avvolgendo al testa il più possibile nelle braccia. Presi saldamente il volante. I cinque si stavano avvicinando, erano a pochi metri da noi. “YEAAAAAAAAAAAAAAAAAA” gridai di follia ed in uno scatto d'impeto schiacciato l'acceleratore e mollata la frizione, feci schizzare la macchina contro di loro. Quella che era un tempo la donna che più amavo al mondo, era ora distesa sul cofano della macchina. Passati in meglio agli altri quattro, solo il cadavere di mia moglie si ostinava a restare aggrappato al cofano della macchina. Continuai a correre per qualche centinaio di metri, acquistando velocità; poi frenai bruscamente. Lei perse la presa e finì a terra. Senza pensarci due volte accelerai nuovamente e ci allontanammo in mezzo alla campagna al di là dal confine del paese.


Di Alex Govoni
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