Correvamo,
correvamo con la macchina che avevo appena rubato, magari ad un amico
o ad un mio conoscente, ma in quel momento non mi importava. L'unica
cosa che volevo era portare entrambi il più lontano possibile da
quel posto infernale, facendomi largo quanto più possibile in mezzo
alla folla di persone e moribondi ambulanti. Il figlio maggiore di
Jack, Nicolas, non smetteva di gridare “Papà! Papà!” piangendo
a dirotto, singhiozzando di quando in quando; mentre io frastornato
dai pensieri e dalle grida tentavo di restare lucido quanto possibile
per salvare entrambi. I secondi passavano lenti in modo irreale.
Quant'era passato dall'attacco di quelle creature? Un'ora? Cinque
minuti? Non ne avevo idea. Avrei mai più rivisto Jack e sua figlia?
Avrei mai più rivisto il luogo in cui ho vissuto per così tanto
tempo, che mi è sempre sembrato sicuro e che ora sembrava una
trappola di morte? Domande che affollavano la mia mente mentre un
comando campeggiava su ogni altro, monopolizzando la maggior parte
della mia attenzione “SCHIACCIA QUEL CAZZO DI ACCELERATORE!”.
Arrivammo più rapidamente del previsto alle porte della città.
Diversi di quei cadaveri ambulanti ci intralciavano la strada. Esseri
vuoti, privi di anima. Finora credevo di averli visti solamente nei
film horror del venerdì sera, ma ora erano li, davanti ai miei
occhi. Non era un film e non stavo nemmeno sognando, anche se avrei
voluto che fosse uno di quei terribili incubi post abbuffata
domenicale. Erano li e si guardavano attorno, cercando, annusando,
pronti a saltare addosso a qualunque essere umano in vita gli
capitasse a tiro per divorarne le membra. Tre di loro erano chini su
qualcosa, la luce dei fari della macchina li illuminava appena,
poiché stavano sul bordo della strada, in posizione leggermente
laterale. Uno si alzò verso di noi. Ci guardava. Lo stesso sguardo
di Amber. Freddo. Morto. La bocca insanguinata e semi-aperta lasciava
intravedere parte del suo sanguinoso banchetto a cui stavano
partecipando gli altri due, un brandello di carne grondante. Cinque
di quei mostri erano in mezzo alla strada come a volerci fermare. Tra
di loro uno era una donna. Una figura esile si muoveva lentamente
nell'oscurità. Silenziosa e tetra. Leggera come uno spettro si
muoveva lentamente ma allo stesso tempo con fare sinuoso, nel buio di
una notte senza fine. Si girò verso di noi. Ci guardava. Era oltre
il raggio d'azione dei fari, ma io sapevo che ci stava fissando.
Sentivo occhi di un altro mondo posati su di noi. Palpebre e pupille
di chi vedeva in noi fonte di vita dalla morte. Iniziò a camminare
nella nostra direzione, gli altri quattro erano come rapiti
dall'odore acre di sangue che iniziava a riempire l'aria.
Appena i
fari colpirono la figura di quell'essere immondo scoprii di chi si
trattava. Mi sembrò come di cadere in una voragine senza fondo. Il
dolore si impadronì di colpo del mio cuore quando i miei occhi
incrociarono quelli di mia moglie; quegli stessi occhi che mi
osservavano dal sacco nero in cui infilarono il suo cadavere. Il
sorriso una volta radioso era ora contratto in un'orrida smorfia. La
bocca sanguinante si allargò lentamente, quasi mi avesse
riconosciuto. Sembrava volesse dire qualcosa, ma ormai era troppo
tardi. Ero come impietrito, non sapevo cosa fare. Iniziò ad avanzare
e con lei anche gli altri dietro presero l'iniziativa. Non vi era
altra scelta. Mi girai verso Nicolas. “Chiudi gli occhi e tappati
le orecchie, qualunque cosa accada: non aprire gli occhi!” dissi in
tono incredibilmente calmo e tranquillo, nonostante la situazione
“Intesi?” il bambino non mi rispose a voce, troppo terrorizzato
da tutto quello che stava accadendo, si limità ad obbedire al mio
comando, chiudendo immediatamente gli occhi e tappandosi in fretta le
orecchie, avvolgendo al testa il più possibile nelle braccia. Presi
saldamente il volante. I cinque si stavano avvicinando, erano a pochi
metri da noi. “YEAAAAAAAAAAAAAAAAAA” gridai di follia ed in uno
scatto d'impeto schiacciato l'acceleratore e mollata la frizione,
feci schizzare la macchina contro di loro. Quella che era un tempo la
donna che più amavo al mondo, era ora distesa sul cofano della
macchina. Passati in meglio agli altri quattro, solo il cadavere di
mia moglie si ostinava a restare aggrappato al cofano della macchina.
Continuai a correre per qualche centinaio di metri, acquistando
velocità; poi frenai bruscamente. Lei perse la presa e finì a
terra. Senza pensarci due volte accelerai nuovamente e ci
allontanammo in mezzo alla campagna al di là dal confine del paese.
Di Alex Govoni
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