mercoledì 23 maggio 2012

DEATHQUAKE: CHAPTER 1.2 THE BEGINNING


…Era una fredda mattina, come al solito stavo rientrando dopo un turno di notte dal lavoro in fabbrica, come sempre stanco da faticare a reggermi in piedi, ma cercando di fare meno rumore possibile per non farmi sentire da mia moglie che, come al solito, dormiva profondamente. Il cielo era plumbeo e sicuramente sarebbe venuto a piovere da un momento all’altro, ma non vi diedi troppa importanza. Mi tolsi le scarpe per evitare di fare rumore e salii i gradini di casa. Voltato l’angolo del corridoio entrai in camera, mi svestii e mi misi sotto le coperte. Guardai un istante mia moglie, pensando Sei così bella mentre dormi…
Ero talmente stanco che appena chiusi gli occhi mi addormentai di colpo senza pensare troppo alla giornata che stava per cominciare per chi invece viveva di giorno, convinto di recuperare le energie per il prossimo turno, ma mi sbagliavo. Appena un’ora dopo un rumore assordante squarciò il silenzio, facendo sobbalzare entrambi sul letto. La casa tremava vistosamente ed i mobili si stavano riversando al suolo, aumentando il rumore prodotto. La stanchezza amplificava dieci volte il rombo del terremoto che stava iniziando, ma nonostante questo in una frazione di secondi scendemmo dal letto, appena in tempo per vedere un pezzo del soffitto cadervi sopra, sfondando la rete. Mia moglie era in preda al panico, gridava e si era immobilizzata dalla sua parte, io attraversai di corsa la stanza, la presi per mano e la trascinai giù per le scale, mentre le mura che avevamo messo su in una vita di sacrifici crollavano su se stesse, sgretolando con esse i nostri impegni e le nostre speranze. In pochi secondi fummo fuori di casa, quel posto che solitamente avrebbe dovuto essere il più sicuro al mondo per noi, aveva appena cercato di ucciderci.
Mia moglie iniziò a piangere a dirotto, la strinsi a me e, mentre lei teneva il viso contro il mio petto, io osservavo atterrito il nostro nido accartocciarsi su se stesso come se fosse un castello di carte che un soffio aveva appena spazzato via. In pochi secondi non rimasero che macerie. Mi guardai attorno e vidi che molti altri erano scesi in strada; chi gridava, chi piangeva, chi cercava di mantenere la calma sfoggiando una forza di spirito sovrumana facendo forza a familiari tratti in salvo, chi cercava di andare tra le macerie ad estrarre parenti che invece non erano stati così fortunati. Un’aria di morte e disperazione si stava spandendo tutt’attorno a noi, come se stessimo in mezzo ad un bombardamento.
“Ehi Jack! State tutti bene?” dissi rivolto verso un uomo poco distante da me. Jack era un mio vicino di casa, nonché mio ottimo amico, era piuttosto muscoloso ed in quel momento teneva in braccio sua figlia che piangeva a dirotto. Suo figlio invece lo teneva per il collo del pigiama, mentre cercava di scalciare in direzione di casa loro. In quello stesso momento una parte della facciata della casa si staccò e si riversò al suolo, alzando una nuvola di polvere. Lui mi guardò con aria afflitta, scosse la testa e tornò a guardare la casa tra la nube.
“Mia moglie, Jessica…” cercava la forza di parlare ma intuii subito. Sua moglie era rimasta dentro, probabilmente schiacciata dalle macerie.
La terra continuava a tremare incessante e noi ci sentivamo come smarriti. Qualche attimo dopo tutto tacque.

Noi cinque ci rannicchiammo in un angolo di strada mentre arrivavano rapidi i soccorsi con tutto il necessario per estrarre chi fosse rimasto sotto ciò che restava delle abitazioni. Un inferno di fumo, polvere e detriti riempiva il nostro presente, lasciandoci con nulla in mano ed un futuro grigio davanti.
Qualche ora più tardi un gruppo di agenti della protezione civile venne a comunicarci che era meglio spostarsi da li, che non era sicuro e che avremmo dovuto andare verso il campo sportivo cittadino, per evitare ulteriori pericoli. “NON SE NE PARLA, IO STO QUI FINCHÉ NON RIVEDO MIA MOGLIE!” inveì rabbioso Jack, ritrovata la forza per parlare.
“La prego si calmi, qui non siete che di intralcio ai soccorsi! Noi faremo tutto il possibile per estrarla sana e salva dalle macerie, glielo prometto!” disse un agente ancor più robusto di lui. Un pizzetto bianco guarniva il suo mento sporgente, compensando la fronte altissima ed i pochi capelli, anch’essi sbiaditi dal tempo. “Per voi stanno già allestendo un campo di fortuna, la prego di dirigersi verso il campo sportivo!”
Ci vollero due agenti per calmare Jack, che tentava di divincolarsi per andare alle macerie dove doveva essere sepolta Jessica. Sembravano una coppia perfetta, lui le era così legato che avrebbe fatto qualunque cosa per lei. Ed ora che c’era più bisogno era costretto a lasciarla sola, sotto le rovine di quella che un tempo era la loro modesta casetta.
Prima che potessimo accorgercene arrivò la sera. Credevo che il peggio fosse passato. Non avevo idea di sbagliarmi così tanto…







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